Per anni ho cercato di cucinare la pasticceria tradizionale giapponese (wagashi) che mi piace moltissimo, ma con scarsi risultati. Quando si trattava di nerikiri, poi, era necessario stare in cucina anche due giorni ma, a dispetto del gusto che era molto simile all’originale, l’aspetto estetico (estremamente importante perché legato alla stagionalità) era davvero deludente.

In uno dei miei viaggi in Giappone una Maestra del Tè mi chiese se in Italia servivamo dolci italiani. All’epoca fui meravigliata di questa domanda visto che la cerimonia del tè è un’arte tradizionale giapponese, e le risposi: “No, ovviamente solo dolci giapponesi”.
Dopo chiese: ” Vi sono pasticcerie tradizionali giapponesi in Italia?”.
Le risposi: ” No, nessuna. Li facciamo a casa facendoci spedire gli ingredienti direttamente dal Giappone”.
Lei infine mi guardò molto sorpresa esclamando: “Che bravi! Noi, qui in Giappone, li compriamo quasi sempre alla pasticceria!”.
In realtà la sua domanda iniziale era molto più profonda di quanto avessi capito allora.

Anche il kimono non l’ho mai amato. Certo apprezzo la bellezza estetica delle pitture sulla seta ma lo ritengo un abito molto scomodo e poco adatto alle donne occidentali che come me hanno delle “forme più arrotondate”. Naturalmente ho imparato a vestirlo e lo vesto molte volte ma non lo faccio per piacere bensì per dovere.
Come molti altri italiani, quando ho cominciato a frequentare le lezioni di cerimonia del tè, l’ho fatto privilegiando la comodità quindi sono andata a studiare con un’insegnante della Scuola Omotesenke senza chiedermi più di tanto quali erano le vere differenze tra le Scuole.
Dopo oltre quattordici anni di studio queste differenze mi si sono palesate in maniera piuttosto brusca.
Mi ero sempre sentita un po’ un’intrusa all’interno della classe tutta di giapponesi, ma lo è stato di più quando la Maestra ha deciso di rimproverarmi per non aver ancora imparato la sua lingua e ha cominciato a parlarmi solo in giapponese.
Se poi avessi voluto frequentare i livelli più alti avrei comunque dovuto farlo esclusivamente in giapponese.
Finché un giorno mi è stato detto: “Non pretendo che tu faccia perfettamente la cerimonia del tè e neppure che tu ragioni come una giapponese. Io pretendo che tu diventi giapponese!”.
Per me è stato uno shock.
Ho capito che c’erano troppe cose incompatibili tra il mio modo di ragionare e quello che si voleva che io adottassi e ho capito che l’orientamento di una Scuola, con i suoi principi più o meno aperti rispetto agli stranieri piuttosto che alle donne, era estremamente importante.
Fortunatamente ho trovato “riparo” presso la Scuola Urasenke, molto più tollerante su alcuni punti come l’apertura alle diverse culture del mondo.
Proprio la Maestra del Tè direttrice dell’Urasenke Italia, la signora Emma Di Valerio, mi ha detto: siamo italiani e dovremmo trovare una nostra Via del Tè italiana”.
Perché mettere per forza dolci giapponesi quando abbiamo una pasticceria regionale di antichissima tradizione?
Perché parlare per forza in giapponese quando, tra italiani, potremmo dire le stesse cose in italiano?
Perché usare tutti utensili giapponesi quando abbiamo splendide ceramiche artigianali con le stesse forme e grandezze delle relative giapponesi?

La cerimonia del tè giapponese trae la sua origine dall’antica cerimonia del tè cinese di epoca Song: il Dian Cha. All’epoca il tè verde compresso veniva macinato a pietra per ottenerne una polvere finissima che veniva poi amalgamata con acqua attraverso un frustino di bambù (assai diverso da quello attuale) in ciotole di tipo tenmoku su piedistalli in legno laccato o intagliato.
Una volta portata in Giappone dai monaci buddisti questa cerimonia è stata subito ben accolta in tutti i monasteri e poi anche dagli Shogun e dalla classe dei Samurai.
I giapponesi, tuttavia, hanno apportato diverse modifiche alla cerimonia cinese: dalle tazze e gli utensili sfarzosi alla ceramica di gusto wabi-cha, dall’abito tradizionale cinese al kimono, dal tè verde cinese al matcha fino alla lingua usata che è diventata il giapponese e molte altre cose ancora.
Eppure tutt’oggi conservano molte caratteristiche cinesi che spesso non sanno neppure di avere: la tazza tenmoku su tenmoku-dai, determinati contenitori del tè koicha (karamono chaire), la lingua cinese nelle calligrafie dei kakejiku, ecc.
Ma i giapponesi hanno elevato questa arte a simbolo nazionale di tutto il Giappone.

Molti italiani appena cominciano a studiare la cerimonia del tè sognano di comprarsi il loro primo kimono e usarlo per una cerimonia.
Il kimono è il vestito tradizionale giapponese non il simbolo della cerimonia del tè.
Per me il simbolo della cerimonia del tè, il segno della mia “appartenenza” a questo particolare mondo è sempre stato fukusa, ma lo Zen ci insegna che ciò che è importante è dentro di noi. Ci dice che non abbiamo bisogno di simboli di appartenenza. Talvolta si pratica e ci si allena in una particolarissima “cerimonia del tè”, la “cerimonia del vuoto”, dove non ci sono utensili, non c’è braciere, non c’è tè e non c’è fukusa.
L’essenza è solo Zen.
Perché il cancello di accesso allo Zen è Matsukaze e il cancello di accesso a Matsukaze siamo noi.*
A questo scopo ho deciso di seguire le impronte della mia attuale Maestra e servire dolci italiani, parlare italiano (agli italiani), aggiungere ai numerosi oggetti giapponesi alcuni oggetti italiani e di altre zone del mondo. Talvolta ho perfino realizzato delle pitture su alcuni shikishi stagionali su cui ho fatto scrivere classiche frasi dello Zen da Maestri di Shodo.
Questo segno di fusione è segno di civiltà.
L’Urasenke ha voluto promuovere la Via del Tè come unione tra i popoli per la pace comune.
E per fare ciò è necessario andare all’essenza del Chado e sapere cosa è fondamentale e cosa può essere semplicemente patrimonio di un popolo o di una cultura.
La cerimonia del tè è la Via, la tecnica è il mezzo. Il resto è solo la preziosa cultura di un popolo.
Spero di riuscire nei post futuri a mostrarvi qualche particolare oggetto non giapponese perfetto per la cerimonia del tè.
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*Matsukaze significa letteralmente “suono del vento tra i pini” ma il suo significato di “cancello di accesso allo Zen” viene da una famosa storia Chan (Zen, Seon).